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La madre di due bambine rapite, ‘vado io a Gaza’

(dell’inviata Silvana Logozzo). Guarda nella telecamera con gli occhi tumefatti per le lacrime e supplica: “Se voi non riuscite a riportarmi le mie figlie, vado io a Gaza, portatemi lì, sarò l’ostaggio numero 243”. A un mese dall’assalto di Hamas, tutto lo strazio di Maayan Zin si sintetizza in un video-appello a Benyamin Netanyahu e a Joe Biden postato su X. Lei è la  madre di Dafna, 15 anni, ed Ela, 8 anni, rapite dai terroristi dopo aver assistito all’assassinio del padre nel kibbutz di Nahal Oz, al confine con Gaza. “Oggi ricorrono 30 giorni da quando le mie figlie sono state portate via. Mi è impossibile dormire, pensare con chiarezza, persino respirare. Vi prego, imploro il vostro aiuto, portatemi a Gaza. Se solo potessi abbracciarle, dirgli che andrà tutto bene, la mamma è qui, non importa altro, la mamma è qui”. Il video è stato visto per un milione di volte.
  A Maayan non importa delle visualizzazioni, ma “é necessario che il mondo lo veda, che mi aiutino”. Maayan ha scoperto la sorte delle sue figlie il 7 ottobre quando la sorella le ha inviato una foto di Dafna seduta su un materasso, a Gaza”. “Ela e Dafna sono tutto ciò che ho desiderato nella vita. Questa è la mia esistenza, essere madre”. Mayaan martedì, non è nella piazza del Museo, a Tel Aviv, davanti al ministero della Difesa, dove sono riuniti i familiari degli ostaggi e sono stati ricordati le vittime e i dispersi. Non ce la fa ad affrontare la gente. E non c’è neanche Igor Krivoi, preferisce parlare al telefono. Lui è il fratello maggiore di Roni, 25 anni, tecnico del suono al rave party nel deserto del Negev, irraggiungibile dalle 10.30 del mattino del 7 ottobre, mentre scambiava messaggi con gli amici dicendo che stava scappando dai terroristi. Nelle foto concesse dalla famiglia all’ANSA, Roni appare rilassato, in vacanza, con i lunghi capelli biondi, il viso angelico, abbracciato al suo cane. “E’ arrivato al festival durante la notte, doveva lavorare lì. E anche divertirsi, lui ama la musica. Poi è successo tutto”, racconta Igor da casa sua a Karmiel, nel nord di Israele. “Si è messo a correre con un suo amico per sfuggire ai terroristi, a un certo punto si sono persi. L’amico ha ricevuto dei messaggi. Poi più niente. Ha provato a chiamarlo, gli ha risposto un uomo, in arabo. Dopo il telefono è stato spento”. Questo è tutto quello che sa la famiglia: l’esercito, dice il fratello, ha avvisato i parenti che il giovane è stato portato a Gaza il giovedì dopo lo shabbat, ma senza fornire dettagli. “Se sono arrabbiato con il governo? Piuttosto sono deluso, non fanno abbastanza”, ammette Igor. E chiede di mandare un messaggio a Roni, come se il pensiero potesse dargli forza: “Ti voglio bene, tutta la famiglia ti vuole bene. Non smetteremo di lottare fino a che non torni a casa”. 

   Una donna anziana si ferma nella piazza del Museo, ribattezzata piazza degli ostaggi e dei dispersi, a Tel Aviv. Mostra all’ANSA il cartello appeso al collo con la foto di un bellissimo giovane sorridente: “Sono la zia di Matan Zangauker, 24 anni, ostaggio a Gaza. Vengo io qui, i genitori non ce la fanno”. 

   I parenti più stretti di rapiti e uccisi  oggi per la maggior parte sono rimasti a casa con i loro cari e il loro dolore. Ma altri familiari li rappresentano nelle manifestazioni in tutto il Paese. Per non far scendere la patina dell’oblio sulle 1.400 persone uccise, gli oltre 200 ostaggi, i circa 39 dispersi. La giornata si è aperta con un minuto di silenzio, le città hanno abbassato la bandiera israeliana a mezz’asta. Il sentimento di lutto si respira anche a Gerusalemme, dove una protesta silenziosa è stata organizzata davanti alla Knesset: nessuno alza la voce, i cartelli dicono “Non abbandonate i prigionieri”.

 

 

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