Trentacinque anni fa il brutale omicidio di Alina Cossu, tuttora senza un colpevole riconosciuto dalla giustizia. Un fatto eclatante di cronaca nera che sconvolse la comunità di Porto Torres, dove viveva la ragazza. Un giallo mai risolto, nonostante sospetti, supposizioni e indagini. Il 10 settembre del 1988 il corpo della studentessa universitaria, di soli 21 anni, fu rinvenuto privo di vita, incastrato tra gli scogli lungo il litorale tra Balai Lontano e Abbacurrente.
Era sparita la sera del 9 settembre, quando fu uccisa da un assassino ancora senza un nome. I familiari non vedendola rientrare a casa avevano dato l’allarme. Da allora attendono giustizia, una ricerca continua della verità, di risposte sul perché di quella morte così violenta. Nessuno allora parlava di femminicidio. Ma il caso di Alina Cossu rientra in quel fenomeno che ha fatto registrare negli anni decine di omicidi e violenze contro le donne. Terminato il lavoro, la sera del 9 settembre, avvertiva il titolare che sarebbe rientrata a casa. Invece non ci arriverà mai. A scoprire il suo cadavere è stato un pescatore. Lanciò l’allarme alla polizia e, poco dopo, sulla scena del crimine accorrono diverse persone calpestando il luogo dove l’assassino aveva lasciato le sue impronte.
L’autopsia rivela alcuni particolari sulle modalità dell’omicidio: Alina è stata aggredita con violenza, probabilmente all’interno di un’auto. Poi spinta in acqua e infine strangolata. Sulla fronte l’impronta di una scarpa. I sospetti ricadono su un operaio, ma tutto si risolve con un non luogo a procedere, disposto dal gip nei suoi confronti. La vicenda finisce anche sulla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”. Spuntano false testimonianze, poi la riapertura del caso con quattro nuovi indagati. Nel 2008, una lettera anonima giunge alla Procura. Un testimone anonimo racconta di aver visto Alina, la sera del 9 settembre 1988, che dopo aver percorso il centro si è diretta in via Adelasia, verso un circolo privato dove alcuni uomini, fra cui gli indagati, si erano riuniti per una cena. Il locale viene sottoposto agli esami dei Ris, ma tutto si conclude con un niente di fatto.
Nel 2011 la decisione del magistrato Gianni Caria, titolare dell’inchiesta, di riesumare il cadavere per tentare di rilevare tracce di Dna sotto le unghie della ragazza. Tre mesi prima si era tolto la vita uno dei quattro indagati. Il peso di quelle accuse era diventato insopportabile. Intanto l’esito dell’esame del Dna non aveva prodotto alcun risultato. Si brancolava nel buio alla ricerca di qualche indizio che potesse evitare la chiusura di un caso così complesso. Ma dopo tante piste battute, resta sempre nel cuore di chi ha amato Alina il dolore e l’amarezza di un omicidio per cui nessuno ha mai pagato. Soltanto la famiglia, che spera ancora, che cerca la verità. A chi sa e non ha parlato in tutti questi anni, resta un peso sulla coscienza, un silenzio che vale come una sconfitta per una comunità che ogni anno ricorda quel terribile assassinio. Sui social è sempre attiva la pagina social “Tutti insieme per Alina”. Oltre 1.500 iscritti che sperano in una svolta. Il messaggio è chiaro: «La verità non ha scadenza». Il coraggio di parlare significa restituire un po’ di serenità a chi le ha voluto bene.
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